Arrampicare al proprio livello naturale

E le mie gambe han camminato tanto
E la mia faccia ha preso tanto vento
E coi miei occhi ho visto tanta vita
E le mie orecchie tanta ne han sentita
E le mie mani hanno applaudito il mondo
Perché il mondo è il posto dove ho visto te
Dove ho visto te

LORENZO “JOVANOTTI” CHERUBINI

Arrivo in palestra, entro nello spogliatoio, apro il borsone. Mentre mi cambio, un ragazzo accanto a me si nastra meticolosamente le dita delle mani, una ad una. So perché lo fa: capsule e tendini infiammati. Penso: quando ho male alle dita io non nastro, semplicemente per un po’ mi tengo distante da Pan Gullich e tacchette.
Entro in sala ed inizio a scaldarmi. In un crocicchio si parla di quello che sembra l’evento del giorno, la presa di posizione di Jim Bridwell sulla schiodatura della via del compressore al Cerro Torre. Penso: non l’avrei mai fatto. Andare con un compressore in paradiso, stare appeso quasi due mesi ad una immane lastra di granito, piantare uno spit dietro l’altro. Cercare una parete alla mia portata, questo avrei fatto.


La serata scivola via assieme alla classe provando un circuito di blocchi. Mi cimento su tutti tranne uno, che evito per non farmi male. So benissimo quali movimenti posso provare per dieci volte di seguito senza farmi nulla – se non allietare il pubblico con i miei voli plateali – e quali invece non posso provare neanche una volta, pena indolenzimenti e dolori per molti giorni a venire. Sotto la doccia indugio godendomi l’acqua calda ed ascoltando le chiacchiere di due climber che si scambiano consigli su quali siano gli anti-infiammatori migliori sul lungo periodo. Penso: quando a me fa male la schiena, mi fermo.

Arrampicare al proprio livello naturale non significa rinunciare ad innalzare i propri limiti, rinunciare a godere della straordinaria sensazione di piacere che deriva dal realizzare il proprio potenziale, dal sentirsi capaci ed efficaci. Non significa abdicare alla trasformazione dei sogni in realtà. Significa non inseguire un livello artificiale.
Artificiale è allenarsi con le dita ingessate, ingollare Aulin e Voltaren d’abitudine, trapanare con un mostro alimentato a kerosene il Cerro Torre, salire sull’Everest grazie all’ausilio di ossigeno, corde fisse a chilometri, sherpa che portano il peso al posto nostro.
Naturale è accettare l’esperienza. Cosa significa? Significa che accetto la pioggia al pari del sole, sia la fatica che il riposo, di raggiungere la cima come di fermarmi prima, di impiegare cinque anni per passare al 6b dal 6a, e magari non arrivare mai al 6c – così come non arrivare mai in cima all’Everest. Non ho aspettative: né altrui né mie. Vado per l’esperienza. Per la gioia di ogni secondo di qui ed ora. Per le emozioni e le sensazioni del presente.
Artificiale è non accettare l’esperienza. Cosa significa? Significa scambiare il mezzo per il fine, e quindi chiamare successo la vetta raggiunta e reputare fallimento la vetta non raggiunta, e di conseguenza essere disposti a tutto pur di ottenere il successo. La storia della “conquista” italiana del K2 nel 1954 è sul tema un vero e proprio corso universitario di autoapprendimento a disposizione di tutti.

Camminare e scalare al proprio livello naturale significa riconoscere che è umano avere dei limiti, e che per quanto possiamo migliorare, dei limiti avremo sempre. Significa che se fossi un alpinista himalayano non progetterei mai una spedizione su un ottomila che presupponga l’abbandono strada facendo delle bombole di ossigeno utilizzate, così come durante un trekking non mi sono mai disfatto di una scatoletta di sardine o di un pezzo di tenda lacerato.
Chi scala e cammina al proprio livello naturale non parte dal campo base ammalato pur di non perdere la finestra di bel tempo. Non accampa scuse, non snocciola distinguo. Potrebbe pisciare sereno in qualsiasi provetta antidoping. Attraversa le montagne senza lasciare traccia di sé, eccettuati alcuni chiodi ed un po’ di carta igienica. Sa voltarsi e tornare indietro. Considera valore l’autosufficienza logistica, perché considera valore l’autonomia decisionale che ne deriva. Fa sua la straordinaria frase di Reinhard Karl: “Ho portato il mio Io sul punto più alto e lo lascio lassù, l’Io che voglio essere. Scendo con l’Io che sono”.
Chi arrampica al proprio livello naturale usa le mani non per conquistare il mondo, ma per applaudirlo.

Saverio Bombelli

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